“Era l’ultima cosa che mi sarebbe mai saltata in testa: no, non me l’aspettavo proprio. A 65 anni non dico che si tirano i remi in barca ma un po’ sì: nel senso che si è consolidata una certa idea del mondo e ci si è incamminati da tempo su certe abitudini di vita. Quando il vescovo Giusti mi ha chiesto di fare il rettore del seminario l’unica risposta che mi è rimbalzata nel cervello è stata: ma figuriamoci, non ci penso nemmeno. Del resto, l’avevo già detto in precedenza di fronte alla stessa richiesta. Sia chiaro, mica per il ruolo in sé: ma la mia esistenza poteva contare su una certa qual libertà di azione, gli orari e gli impegni me lo gestivo per conto mio, e questo mi permetteva di essere pienamente a disposizione delle persone in cerca di un consiglio o comunque di una parola o di una spalla sulla quale piangere e cercare consolazione. Invece lo sapevo bene cosa avrebbe portato con sé la responsabilità di guidare il seminario: sei il punto di riferimento di giovani aspiranti preti a un passo dalla scelta che condizionerà la loro intera vita, devi tenere la porta (e il cuore) aperto 24 ore su 24, gli orari sono quelli della comunità e sono abbastanza rigidi, anche per dormire si è in comunità. Come dire: qualcosa che ti assorbe completamente l’esistenza magari ingabbiandola in schemi e orari (perché è così che si vive in comunità altrimenti è un caos), qualcosa che ti cambia la vita e ti mette sulle spalle la responsabilità di dire i sì e i no che cambieranno radicalmente i sogni e i bisogni di tanti giovani (ma spesso non più giovanissimi, cioè persone che hanno già ferite e ammaccature sull’anima).
No, no, no. Avrei dovuto rinunciare a quel che mi ero costruito: anche a un po’ di tranquillità, quando ormai pensavo di poter abbassare il numero dei giri del motore e tirare un po’ il fiato. No, no, no. Non era nei miei piani. Ma il vescovo si era messo in testa di insistere, e insistere ancora. Ecco, ho intuito che capita che il disegno di Dio scriva nelle righe del quaderno delle nostre vite. E lo faccia talvolta per toglierle proprio dai disegni preconfezionati che ci siamo scarabocchiati dentro le nostre teste, lo faccia per accoglierci dentro il disegno che ha sulla nostra persona, sulle nostre comunità. Alla fine ho detto sì.
Le parole non riescono a spiegarlo abbastanza. La responsabilità indiretta nei confronti di una comunità – fosse essa parrocchiale o diocesana – la conoscevo, ma si fermava prima di ciascuna persona e le lasciava il come e il quando impegnarsi e lasciarsi coinvolgere in parrocchia o in diocesi. Qui no: mi era stata affidata la responsabilità diretta – anzi, direttissima – su persone che venivano affidate al discernimento mio e della mia équipe di collaboratori. In ballo c’erano le scelte vocazionali, cioè il cuore della vita, di persone in carne e ossa con cui mangiavo a tavola, dialogavo, scambiavo confidenze e davo indicazioni. Il discernimento significa anche: no, tu non sei adatto a fare il prete. Attenzione, bisogna tener presente che per arrivare a essere ordinato sacerdote non basta la volontà del singolo aspirante. Da tradurre concretamente così: non tutti quanti si fanno avanti arrivano a diventare prete. Per capirci: nei dieci anni in cui sono stato al timone del seminario, si è presentata una sessantina di persone e non più di 15 sono diventati poi effettivamente preti. Non si deve credere che la diminuzione del numero di quanti rispondono alla vocazione sacerdotale possa portare ad una sorta di “liberi tutti” per cui la Chiesa abbassa l’asticella e dà il via libera a chiunque. Si rischierebbe di ritrovarsi ad affidare comunità parrocchiali a persone magari poco equilibrate: una “polveriera”, insomma.”